è un pensiero che mi
coglie di sorpresa, sì, perché non è ch'io sia più di tanto abituata ad
osservare o commentare le relazioni tra genitori e figli. Farà parte
di tutto questo paragonare, confrontare, commisurare e spiegare
(spiegarmi) due culture così diverse, mi dico. Qualunque sia il
motivo e per quanto banale possa sembrare questa conclusione, non
posso fare a meno di constatarla. Mi sorprende parecchio, a
dire il vero, forse perché sono così concentrata a scovare
particolarità e differenze che quasi non mi rendo conto di tutto ciò
che invece accomuna e rende simili.
Sono stata due giorni
nella provincia di Bac Giang, a tre ore di macchina da Hanoi, in un
piccolo e precario villaggio, An Lac, accompagnata da una schiera di
chiassosi studenti vietnamiti, per un campo di volontariato con i
bambini. Abbiamo incontrato i loro genitori e i loro nonni, abbiamo
giocato con loro e, a guardarli bene, questi bambini vietnamiti non
sembrano poi così diversi dai loro coetanei italiani. Nel gioco,
intendo, non di certo nello stile di vita.
A tratti esclusa dalle
dinamiche del momento a causa di ovvi limiti linguistici - il che non
mi dispiace perché mi dà la possibilità di riprendere fiato dal
caos creato dai volontari che non smettono nemmeno per un minuto di
urlare e ridere, quasi sono peggio dei bambini!- ho la possibilità
di starmene lì ad osservare, appuntando nella mente queste
riflessioni estemporanee che ora, a mente fredda, posso rielaborare.
Mi rivedo mentre me ne
sto lì e da un lato del cortile i bambini cantano una canzone in
cerchio con i volontari (chissà cosa stanno dicendo, poi),
dall'altra i genitori e i nonni li guardano compiaciuti, sicuramente
fieri e orgogliosi di vederli giocare assieme, almeno per una volta.
Nel frattempo li vedo che confabulano e ridacchiano, c'è questa
specie di complicità che si è creata tra loro per il fatto che ricoprono lo stesso ruolo, vigili. Ogni tanto qualcuno alza
la voce e si rivolge al figlio, alla figlia o al nipote dicendo
qualcosa che chiaramente io non capisco, allora cerco di
interpretare. E mi riesce anche bene: “Vieni a bere, su”
ed ecco che la piccola Phuong obbedisce, si stacca dal gruppo, corre
verso la mamma che le porge una bottiglietta d'acqua; “Non
lasciarlo lì per terra, portami qui il berretto che sennò si
sporca”, ora è la volta di Lam che in due secondi esce dal
cerchio, obbedisce alla nonna e come un fulmine torna a cantare con
gli altri, non vuole proprio perdersi nemmeno un attimo di questo
gioco; “Vestiti che fa freddo”, Ly non fa nemmeno in tempo
a terminare la frase che Tam si è già rimessa la giacca che aveva
volutamente lasciato cadere; “Non urlare, comportati bene”,
è il turno della nonna di Bao, mi chiedo se stiano facendo una
specie di gioco anche loro, con tutto questo suggerire, riprendere,
commentare le azioni dei figli. Si scambiano sguardi d'intesa “Hai
fatto bene, fa freddo stasera, si sarebbe ammalata sicuramente senza
giacca”, “Bisogna sempre dire tutto a questi bambini”,
“Chissà come si sarebbe ridotto il berretto se l'avesse
lasciato lì per terra”, si danno colpetti sulle spalle,
ridono. Sorridono. E poi con i loro cellulari scattano delle
fotografie, per immortalare il momento, per mostrarle il giorno
seguente ai loro vicini di casa o semplicemente per conservarne il
ricordo. Mi torna alla mente quando anch'io da
piccola, mentre giravo sulla giostra dei cavalli (la mia preferita)
attendevo ogni giro di salutare la mamma, mi sbracciavo, mi facevo
fotografare allo stesso modo.
Poi d'improvviso il
gioco finisce, quasi non me ne rendo conto tanto sono assorbita
dai miei pensieri e persa nella mia immaginazione di creatrice di dialoghi: i bambini smettono di
cantare, è ora di andare a casa. Tuyet si dirige verso sua figlia
Ngan, le sistema la giacca e il berretto. Mi guardano e mi sembra di
cogliere esattamente queste parole: “Su, si saluta prima di
andare via”. Lei corre verso di me, la sto aspettando con un
sorriso; afferra la mia mano, mi guarda e sono sicura mi stia dicendo
“Ciao Anna, ci vediamo domani!”
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