lunedì 25 novembre 2013

Il tempo prima del tempo

Ore 5.20 del mattino. La sveglia suona. La sento ma vorrei ignorarla. Dall'altra stanza mio padre già discute sulla puntualità mancata, mi alzo e mi sento esasperata da questo brusco lunedì mattina ancora prima di cominciarlo. Proseguo a tentoni attraverso le altre stanze ancora buie, più che altro mi fido della familiarità che ormai ho acquisito per muovermi tranquillamente tra queste pareti: le mie. Il cervello ancora ovattato mi conduce fino alla cucina, poi al bagno ed infine allo studio dove fortunatamente la valigia rossa mi aspetta, pronta. Non sono poi così disorganizzata, penso. E un po' me ne compiaccio. 

Mi trascino giù dalle scale, cerco di non svegliare l'intero condominio ancora assopito. Sono immersa nel buio e nel silenzio della campagna addormentata, solo alcuni gatti accoccolati sui tetti delle macchine alzano pigramente il muso per accertarsi che niente disturbi il loro sonno. Non è poi così freddo, penso, la nebbia stranamente non offusca la vista e l'orizzonte. Sfrecciamo nella notte (sì, per me questa è pura notte inoltrata) verso la stazione dei treni e mi stupisco del traffico che riempie le corsie in entrambi i sensi di marcia già a quest'ora del mattino. Vedo molte stelle oltre il finestrino, sarà certamente una giornata serena, spero non solo in senso meteorologico. Nascosti tra l'erba alta e i cespugli disordinati stanno i capannoni e le fabbriche fuggono a perdita d'occhio. Dormono anch'esse, avvolte nella brina e nell'oscurità, in estremo contrasto con il ritmo frenetico della produzione che al loro interno a breve si svolgerà.

Salgo su un treno inaspettatamente gremito di giovani lavoratori e studenti e cerco un posto abbastanza tranquillo per riposare ed eventualmente scrivere. Mi dirigo strategicamente verso la fine del convoglio. L'ultimo vagone di solito ha il pregio di essere il più caldo ed anche il più silenzioso, ma oggi vengo presto smentita da un gruppo di adolescenti agitate per un compito che evidentemente le accoglierà al loro arrivo in classe. Penso con una stretta allo stomaco al mio periodo liceale, ai risvegli all'alba, agli interminabili percorsi sull'autobus e a quelle giornate di reclusione in classe mentre sognavo d'essere ovunque meno che lì. Ringrazio tra me e me di aver passato quella terribile fase della vita e cerco di risollevarmi al pensiero dei primi, stupendi e indimenticabili anni d'Università. Stacco la mente da questi cupi e tristi pensieri e torno a concentrarmi sul microcosmo di sedicenni che mi circonda. Citoplasma, nucleo, Rna: questi gli argomenti più gettonati da una studentessa davanti a me che viaggia accompagnata da una testa finta. Sì, proprio una di quelle povere teste sottoposte ad improponibili esperimenti di colore, taglio e piega. È la prima volta che mi capita di viaggiare a fianco d'una testa di prima mattina, crea un'atmosfera surreale, penso, quasi felliniana.


Nel frattempo la luce rischiara il cielo e brillano adesso i fiumi ghiacciati e le piccole pozzanghere d'acqua nei campi che vedo scorrere oltre la ferrovia. Scintilla anche la neve sulle cime delle montagne e l'Inverno per me quest'anno inizia così, a bordo di un treno, il lunedì mattina. 




A

mercoledì 16 ottobre 2013

Le 15ème

Ci sono ricascato. 
Una telefonata ed un'isterica ricerca di un volo Ryanair sono stati sufficenti per catapultarmi di nuovo in questa caotica metropoli, tanto amata, quanto odiata. 
Nemmeno il tempo di togliermi dalla testa le note di "Adieu Paris", gli ormai naturali "d'accord" et "ouais" dalla mia bocca, dannazione!

Penso che ricorderò per un bel pò il suono di quel telefono, la tensione, lo sforzo di capire una lingua che non è la tua. Quella voce straniera che esce fuori dalla cornetta. 
Pensavo la Francia fosse lontana, ero pronto a fare ordine, a sedermi.
Invece no. 
Parigi era molto più vicina di quello che credevo, svegliadomi in fretta e furia, come quando al mattino ti prendi a letto in vista di un appuntamento importante. 
Bentornata instabilità! A quanto pare non ti sei fatta aspettare molto, ma con tutta questa fretta un pò stronza lo sei stata. 

Perché partire ha un prezzo: tutto ha un prezzo. I viaggi e le occasioni non sono mai delle fortune calate dall'alto. Nessuno ti regala nulla. 
Nessuno. 
Il prezzo delle cose aumenta quando il viaggio ti cambia, ti aiuta a valorizzare anche ciò che avevi lasciato. 
A me stesso non posso mentire: i funamboli erano partiti per ritrovarsi, ma poi? Quando ci si ritrova la valigia si appesantisce, cambiando il valore di ogni altro viaggio. 

Ricorderò il suono di quel telefono come un ennesimo confine da marcare, tra la riscoperta ed il caos (ancora una volta, si!)

Da lì in poi, un mese di malinconie, nervi e dubbi e colpi di fortuna mi hanno condotto fin qui, nel 15ème, a sud di Parigi, dove la Petite ceinture, un'ex-ferrovia riqualificata a parco, attraversa tutto il quartiere. 

Mi piace spesso farci due passi: penso sia l'unico posto in città dove tu possa fare una decina di chilometri a piedi senza incrociare macchine. 

Conosco altri posti così, ma sono tutti lontani: lasciati accidentalmente a casa, come molti altri oggetti dimenticati fuori da una valigia preparata troppo in fretta. 

Comincia a fare freddo a Parigi, e la mia percezione della città cambia ancora una volta. Troppo velocemente, senza preavviso.

Tante persone mi hanno scritto: "sei fortunato", me lo hanno ripetuto come un mantra. 

Ma si sa, tutte le cose hanno un prezzo. 
Fortuna compresa. 

M


venerdì 26 luglio 2013

La canicule

Parigi, 26 Luglio 2013


La canicule: ovvero il caldo. Un caldo che non mi aspettavo questa Parigi conosciuta in inverno. 

Si, era inverno, un'altra dimensione, un altro volto, che ora quest'estate esplosa d'improvviso ha cambiato completamente. dilatando ancora più il tempo. Sudo all'inverosimile e non mi capacito delle settimane passate dentro queste mura e queste strade. 

Era davvero inverno, e al posto di dire "ciao" ci dicevamo "arrivederci". Era tutto più ovattato ed indefinito, ora questo sole brucia ed elettrizza allor stesso tempo. Avevo una casa, ne avrò una nuova: sono cose che ho ripetuto a me stesso milioni di volte, come tutte le strade di questa città.

Il cambiamento ora ha un sapore diverso, non so perché e nemmeno m'interessa saperlo. E' come la canicule: ogni anno arriva e non sei mai preparato ad affrontarla. Era inverno, e non ero preparato al salto nel vuoto. Adesso è estate, in piena preda del Luglio, e rimettere i piedi per terra mi spaventa altrettanto. 

Avrei potuto scrivere molte più parole in questi mesi, ma ho preferito assorbire le cose, bilanciarmi, cercare come sempre un temporaneo equilibrio. Dentro di me non porto più nulla di vecchio ormai.

Arrivederci Parigi: ora prendo il volo. Ero partito per tornare sui miei passi: allo stesso tempo partirò per ritornare da te a riprendermi tutto ciò che ti ho lasciato.


M


martedì 2 luglio 2013

Sei

Il Sei è un numero che non lascia dubbi, nella sua perfetta simmetria che regola e divide. Il Sei è una lama affilata che spezza l'anno a metà e ne fissa i limiti indiscutibili. Il Sei è un numero imponente nella sua 
chiarezza. Il Sei è ricco di significati, soprattutto quando sono sei i mesi che passi a Parigi. 

Ormai non si tratta più di un fatto temporale: se oltralpe ci ho lasciato metà anno, senza vergogna posso dire di averci anche lasciato quasi metà cuore. 
Sei mesi cominci a sentirli: prima t'introducono dolcemente in una realtà che immaginavi solo attraverso Google Maps, ti danno il tempo abituarti al cielo grigio della Francia, ti lasciano respirarne l'aria, persino gli odori delle case poco toccate dal sole, per poi schiaffeggiarti ogni tanto mentre tu percorri la città in tutte le direzioni, come fosse un enorme libro da studiare. 
E poi ancora, un giorno qualunque, questi mesi ti fanno ritrovare improvvisamente in estate, come ad avvertirti che una fase si sta chiudendo e che forse un po' psicologicamente ti devi preparare ad un ritorno da reggere solamente metà cuore. 

Sei mesi non possono rimpiazzare ventisei anni, come un giorno non può rimpiazzare sei mesi. Sei mesi soprattutto qui.

Sarò banale, ma l'idea di non sapere dove sarà precisamente la mia testa tra qualche settimana(se a Breganze o a Parigi) mi destabilizza e m'inquieta. 
Personalmente non vedo la mia evoluzione in maniera lineare, ma bensì come una rete, dove forse ogni tanto mi sono pure impigliato. Una matassa di ricordi, episodi apparentemente banali, incontri, concidenze, e - perché no? - amici. 

Ma la vita a volte è davvero strana: come essa ti fa ritrovare a vivere in posti inimmaginabili, allo stesso tempo, ad un minimo accenno di equilibrio, viene a bussarti alla porta, per ricordarti che sei sempre e comunque un funambolo. 
Si dice che dove c'è il cuore c'è casa, ma io mi chiedo: quante case lasciamo? Quanti sono i pezzi di cuore dispersi?

Dopo le dieci non passano più autobus per la Défense, ma questa sera non voglio stare a casa: sono preso da troppe domande e la testa deve prendere aria. Qui le giornate durano tantissimo e il sole non è ancora tramontato, per questo decido di salire sulla collina del Mont Valerien a pochi minuti da casa. Da lassù posso godere di un panorama diverso dal solito: allungo lo sguardo, vedo Parigi, mentre tra la curiosità del ritorno e l'imminente nostalgia sento che tutto ciò mi mancherà. 

Una perfetta divisione anche questa.








giovedì 6 giugno 2013

Andare altrove per vivere altrimenti

La citazione non è mia, me ne sono appropriata qualche giorno fa durante un interessante incontro sul tema del viaggio. 
Il proprietario di questa affermazione è Romano Toppan, docente di Economia del turismo e autore de "Il viaggio- contributo della letteratura e dell'antropologia culturale al senso del viaggio". Il libro è un interessante racconto dell'evoluzione della figura del viandante partendo dal buon Goethe fino ad arrivare ai giorni nostri, passando per Montaigne, Proust e  Chatwin. E' una raccolta di "aforismi enzimatici" sulle varie concezioni del viaggio, come lo ha scherzosamente definito Duccio Canestrini, antropologo roveretano e moderatore della conferenza. 

Oltre a rivelarsi un incontro molto interessante (ma soprattutto una fuga dai libri che incombono sulla scrivania), è stata l'occasione giusta per iniziare una riflessione più o meno seria sul significato dello spostarsi, l'andare verso qualcosa che non si conosce bene, viaggiare appunto. Sia ben chiaro, l'intento non è certo quello di snocciolare definizioni o sentenze su come un viaggio debba essere, si tratta più che altro di un tentativo personale di dare un nome alle cose. 

I primi viaggi in cui mi sono avventurata avevano il senso della scoperta, della curiosità di sapere cosa si nascondeva dietro alle alte montagne, al di là dei mari, cosa succedeva fuori dai confini del piccolo paese di provincia. Mi sembrava profondamente romantica l'idea di partire e stabilirmi altrove pensando al significato della parola persempre. In più di una occasione le mie partenze sono state una vera e avanscoperta, tanto che mi ritrovavo ad immaginare con dovizia di particolari a come sarebbe stata la mia vita quotidiana in quel contesto, tra quelle persone. Dove avrei comprato il pane, come avrei trascorso i vari sabato sera o con chi avrei condiviso il pranzo della domenica. A volte mi chiedevo se un giorno avrei mai imparato a cancellare il mio accento per mimetizzarmi totalmente senza essere considerata "la straniera" di turno. In Vietnam questo sarebbe stato un aspetto irrilevante, da non considerare nemmeno. Ma questa è un'altra storia. 

Comunque, ciò che avviene puntualmente è l'accrescersi di un sottile ma deleterio sentimento che in modo inevitabile mi riporta sempre al punto di partenza. La chiamano nostalgia, mancanza, malinconia. Io lo chiamo attaccamento. Pur scappando e pur improvvisando comportamenti spavaldi (o forse si tratta di auto- convincimento?) sento crescere il bisogno di riallacciare, ristabilire... ritornare. Mi sento, cioè, continuamente combattuta tra il fascino dell'ignoto di una vita lontana dall'abitudine e la serena rassicurazione del caldo nido familiare. Dopo tanti tentativi ho dovuto accettare il fatto di essere tremendamente attaccata alle mie radici, alle persone e ai luoghi dove sono cresciuta. Non posso farci niente. Ho paura che sia l'effetto di quel vecchio detto per cui uno percepisce il valore delle cose solo nel momento in cui gli vengono a mancare. 

Allora ho iniziato ad interpretare la partenza in modo diverso. Una scoperta, una sfida, certo. Ma soprattutto una miniera di stimoli da portare a casa con me, da conservare per strutturare le giornate in libertà, proprio come succede quando viaggio. Mentre viaggio cerco di comportarmi come una spugna, assorbo quanti più input mi è possibile, annoto, fisso nella mente immagini o idee che poi cerco di rubare per rendere la vita di tutti i giorni più simile a come la vorrei. E' come se stessi componendo un collage. Ritaglio e poi incollo il dettaglio che tanto cercavo in un'opera complessiva, sempre imperfetta ma in continua evoluzione. Ho notato che, dopo ogni viaggio, vivo diversamente situazioni e contesti, relazioni e imprevisti. Valuto ogni cosa con parametri diversi e, in generale, mi sento meno inquieta.  

Forse il futuro mi chiederà di spostarmi di nuovo, di cambiare ancora Paese. E allora via, sarà il tempo del 14° o 15° trasloco (ho perso il conto), del nuovo inizio. Del riavvicinamento con la curiosità e la paura, sentimenti ormai ben noti, con l'entusiasmo di poter reinventarsi daccapo e quella latente malinconia per ciò che confortava e assicurava disinvoltura. Intanto cerco di dipingere, tratto dopo tratto, il quadro del mio mondo, riconoscendo nell'andare altrove il desiderio di vivere altrimenti. 


A

sabato 4 maggio 2013

Gli amici che ti vengono a trovare


Aprile è stato davvero il giro di boa di questa esperienza Parigina, e gli amici ne sono stati lo spartiacque.
Parlo degli amici che ti vengono a trovare, quelli che di colpo ti fanno leggere la città dove vivi in tutt'altra lingua. 

Vai a cercarli all'aeroporto, li saluti in maniera rumorosa, rispolverando un dialetto che nemmeno gli italiani capiscono. 

Ed ecco che un pezzo d'Italia ti viene a cercare, facendoti sembrare vicino nei chilometri e lontanissimo nelle stagioni rispetto ad essa, tutto questo in un anno pieno di abbracci, separazioni e ritrovi.

Con questo ritmo sono arrivati i fiori nei parchi, e con essi le passeggiate assieme a facce ancora familiari nonostante i mesi passati.
Facce di amici increduli di vederti a Parigi, mentre ti districhi nel caos della Métro di Chatelet. 

Si parla delle solite cose, con fierezza e malinconia allo stesso tempo: "si mangia male qui? E lavoro potresti trovarne? Ma é vero che Hollande é in crisi? Ma ti manca casa? Eh ma qui almeno hanno un governo!"

Per l'ennesima volta forse cado nel tranello di stereotipati paragoni tra Italia e Francia, ma poco t'importa perché almeno per un volta tutto si può condividere con gli amici, anche i pensieri.

E poi porti gli amici a Montmartre e li fai scendere fino alla Moschea, guardi i loro occhi meravigliati di un luogo che per te é pane quotidiano, e ti senti fortunato ad averne tutta questa familiarità.



Si, davvero ti sembra tutto meno distante, e forse allo stesso tempo più destabilizzante, come una realtà che ritorna a bussare su un equilibrio che pazientemente in quattro mesi ti eri costruito. L'inverno, nonostante la sua rigidità, mi ha dato molto tempo per riflettere.

E dietro quei sorrisi e le corse alla Jules et Jim per prendere l'ultimo autobus per Nanterre il mio cuore sobbalza sempre più tra due realtà: una passata, che nonostante tutto, ti vuole ancora bene e ti chiama a sé, ricordandoti le infinite serate a Bassano e una futura, che ti offre delle possibilità che nemmeno tu sei in grado di valutare.

Perché gli amici che ti vengono a trovare, ti mancavano e ti mancheranno sempre, per quanto tu voglia scappare.


M


(Foto di Michele Belluco)






domenica 28 aprile 2013

EDIZIONE STRAORDINARIA - AUSTRALIA

Sono a circa 16.000 km da casa, un viaggio lungo, 24 ore esatte per arrivare qui, nella terra dei canguri. Il primo giorno mi si leggeva in faccia il mio senso di smarrimento, vuoi per il fuso, vuoi perché mi sentivo fusa. Sydney era lì, che mi aspettava, ma il tempo di certo non mi avrebbe aspettata e le ore a disposizione non erano molte. Vedere con i miei occhi luoghi sempre visti su libri, giornali o tv crea in me una strana sensazione, forse viene meno lo stupore, ma non manca la gioia di esser lì e di esserci arrivata da sola. Mi verrebbe quasi da definirlo come un luogo senza storia, ma sarebbe un errore perché ce n'è, solo ben diversa da ciò che noi siamo abituati.
L'azzurro è il colore che ho sempre davanti a me. Vedere oceano e cielo che si fondono all'orizzonte mi trasmette una calma che da tempo non provavo. Forse era proprio questo ciò di cui avevo più bisogno, anzi, il forse lo posso pure lasciar perdere. Girare qui significa vedere una grande città sviluppata intorno ad un centro costituito da grattacieli, ma appena si raggiunge la periferia tutto cambia: centinaia di chilometri di terre aride, ogni tanto un piccolo paesino e l'unica domanda che mi sorge spontanea è "ma come fanno a vivere lì?". Trovarmi ad Adelaide mi ha fatta sentire quasi a casa. Finalmente anch'io ci sono stata, ma se c'è una cosa che mi è chiara è che non fa per me stare così lontana dall'Italia. Eppure i nonni c'erano riusciti.
Un giorno qualcuno mi chiese cosa volessi fare da grande, ma la risposta precisa ancora non ce l'ho. Forse è già una conquista sapere cosa non voglio. In queste settimane staccare la spina, non aver pianificato praticamente nulla, non avere orari, non avere qualcun altro da aspettare o da non dover fare aspettare, non avere scadenze, non avere tempi da rispettare mi ha come liberata. Gli ultimi anni sono stati così, ma ora un capitolo è chiuso. Tra pochi giorni torno e ce n'è uno nuovo da iniziare a vivere, senza dimenticare ciò che diceva Aldous Huxley: “C’è solo un angolo dell’universo che puoi essere sicuro di migliorare, te stesso".
Giada Pivotto

martedì 23 aprile 2013

Mi trascino

La Parigi che non ti aspetti. La Parigi che avevi sempre immaginato e nella quale magicamente ti ritrovi immerso. La Parigi dei bistrot, degli artisti di strada e dei parchi gremiti di persone. La Parigi romantica e sognatrice. Queste le immagini che conservo della parentesi francese appena terminata. 

Per l'ennesima volta ho preso la mia valigia rossa e l'ho caricata a bordo di un aereo qualunque per raggiungere il mio M in terra straniera. Questo 2013 può essere eletto l'anno degli spostamenti e delle migrazioni, degli addii e degli incontri, dell'attesa e degli abbracci. Un anno intenso. E siamo solo (o già?) ad aprile. Forse questa fuga d'oltralpe è arrivata nel momento giusto, per attutire lo spaesamento- da- reinserimento, non so; fatto sta che avevo bisogno di un momento da dedicare a me...a noi. Ora ho la sensazione di non aver solo visitato la città, ma di averla vissuta, senza essermi fermata alla superficie o alla Gioconda. Abbiamo passeggiato nei parchi improvvisando improbabili pique- nique, riso di qualsiasi cosa con spensieratezza e goduto del rarissimo sole parigino. 

Avevo pochi ricordi della città, quasi dei flash; per questo è stato come se la vedessi (vivessi) per la prima volta, ma allo stesso tempo la sentivo mia ad ogni passo e ad ogni parola. Ero affascinata e rapita dalla bellezza e dalla ricchezza di ciò che incontravo, del suo significato storico.
Cercavo di immaginarmi le stesse strade nell'ottocento, anzi, a fine settecento, prima che il Barone rivoluzionasse l'assetto urbano della ville lumière. Mi sono chiesta che volto avesse questa città al tempo degli artisti le cui opere abbiamo ammirato nelle sale dei musei, cosa significasse per l'epoca vivere qui, quando non era ancora stata costruita la Tour Eiffel e si organizzavano grandi balli al Mulin de la galette. Mi chiedo cosa significasse Parigi per Modigliani o per tutti gli altri italiani che qui avevano deciso di emigrare; chissà se questa città conserva ancora oggi tutta la sua forza attrattiva. Certo, è facile rimanerne affascinati, soprattutto se sei giovane, sognatore e magari anche amante dell'arte. Parigi travolge, seduce e ammalia. Ti fa sentire libero. Sarà l'effetto della grande città, amplificato ancora di più per noi che siamo cresciuti in un paesino da ottomila abitanti, per certi versi troppo stereotipato e limitante. 

E' stato bello immergersi nell'atmosfera sognante di Parigi, insieme, facendosi inghiottire di tanto in tanto dal mondo sotterraneo oppure arrampicandosi su ripide salite per godere di panorami urbani mozzafiato. E' stato bello rientrare a casa la sera con i piedi doloranti ma con gli occhi colmi di tanta bellezza degna di una capitale culturale europea. 

La scorsa settimana mi sono innamorata due volte. Ora è tremendamente difficile ritornare alla vita di sempre, intendo quella precedente ad Hanoi. Il fatto è che quando viaggi, bene o male, lo fai perché ti sta stretto il contesto nel quale solitamente sei inserito, perché hai voglia di conoscere altro, anche se non sai bene definire cos'è questo "altro" che cerchi. Poi torni e non puoi fare a meno di cadere in confronti e paragoni, tanto interessanti quanto dilanianti. Non dovrei essere felice delle esperienze fatte? Non dovrei esserne fiera? Non dovrei aver voglia di un po' di stabilità dopo questo inverno intercontinentale? Non dovrei dare valore a ciò che ho?



A

venerdì 29 marzo 2013

Vietnamese days

E così scrivo il mio ultimo post vietnamita. Ho chiuso tutte le mie cose -vecchie e nuove- dentro alla valigia, ho guardato per l'ultima volta il West lake ed i suoi pescatori dalla terrazza del quarto piano ed ho ascoltato la canzone delle partenze.
 

È da circa due settimane che mi preparo a questo momento e se penso al tempo trascorso qui, posso serenamente dire di aver goduto di ogni attimo negli ultimi tre mesi, senza strafare e senza “sprecare nulla”, come mi diceva M il 3 gennaio all'aeroporto. Tempo di bilanci, quindi. Ora credo a chi mi diceva “non farai nemmeno in tempo a disfare la valigia”, oppure “vedrai come voleranno tre mesi”. Infatti i giorni sono rotolati via uno dopo l'altro con la stessa facilità con cui il gelo dell'Inverno ha lasciato spazio alle domeniche assolate di Primavera, in cui era vietato rimanere a casa.

E così terminano anche questi vietnamese days, come direbbe Orwell, così densi di incontri e scoperte, quasi è difficile riordinare i ricordi e pensare ad una cronologia di avvenimenti completa. Sì, mi sento serena e tranquilla pensando al ritorno. È un momento delicato tanto quanto la partenza, anche se spesso sottovalutato. Voglio concentrarmi anche su quest'ultimo, prezioso, attimo, anche se il pensiero per le persone che incontrerò e che abbraccerò di nuovo dopo tanto tempo è incontenibile. Per questo mi sento inquieta e divisa a metà tra impazienza  fuori controllo e malinconia pervasiva.Ma più di tutto c'è questa serenità che mi avvolge, quasi irreale per quanto rara.

Come ho ripetuto più volte, credo di non aver mai provato prima d'ora tanta tranquillità. Ho quasi paura d'andarmene perché non voglio perdere questa sensazione, non voglio lasciarla dissolvere. Mi auguro che ormai sia diventata parte di me così da poterla trasferire anche dall'altra parte del mondo, affrontando con tale stato d'animo qualsiasi situazione futura.


E così è tempo di rientrare, finalmente. Ma so già che prima o poi tornerò qui, in Vietnam, per assaporare tutto ciò che mi sono lasciata sfuggire, anche se ho fatto di tutto per esaurire la lista delle cose da fare durante i miei giorni liberi. “A presto”, pensavo mentre sorseggiavo una limonata al tramonto; “a presto” dicevo alle donne del mercato di Xuan Dieu, “ci rivedremo”, mi dicevo mentre salutavo il pescatore in bicicletta, quello che mi aspettava ogni giorno all'angolo della strada.

A

 



mercoledì 27 marzo 2013

Music for Airports

Anna ritorna: in quasi tre mesi si è persa e si è ritrovata. 

Un pezzo di Hanoi ora viaggia verso l'Italia con lei, e me lo mostrerà oltre la patina delle sue foto. 
Chissà come sarà, chissà se la troverò cambiata. Potrei dire tutto e niente

Anch'io fra un paio di giorni come lei prenderò l'aereo: l'unico mezzo che può portarti in capo al mondo e allo stesso tempo portarti nella terra di nessuno, dove tutto è ovattato e apparentemente infinito. 

Mi hanno sempre incuriosito gli aeroporti, la loro concitazione e temporaneità: è una sensazione con la quale pure noi funamboli abbiamo imparato a convivere, come una valigia che, riempiendosi, paradossalmente risulta sempre più familiare e leggera.

Più penso ad Anna, più ascolto questo disco di Brian Eno: spiega meglio di tante altre cose il viaggio. Sia andata che ritorno.


Bentornata a casa, Anna.

M

sabato 23 marzo 2013

23 Marzo


Forse anch'io come Anna dovrei scusarmi del ritardo, visti i miei sporadici interventi nelle ultime settimane, ma anche da questo lato del Mondo serve prendere il tempo per assorbire le cose. 
Nel mio caso, credo che concretamente ci siano voluti quasi due mesi, e certamente non sono ancora sufficienti per prendere la giusta distanza dall'Italia e la giusta vicinanza a Parigi. 

E Parigi non è la Francia, ma una serie di frammenti di umanità riuniti in un unico grande esperimento. 

E pure io mi ci sono buttato come cavia, senza troppo pensarci, perché dalle stronzate ogni tanto nasce qualcosa di buono. "Le grand rêve Parisien", mi piace chiamarlo, come una specie di alternativa europea al più commerciale "American Dream": ci si prova, si sbatte il naso, ci si riprova. 

Pensavo di sentire più mancanza del Veneto: evidentemente azzerare le cose mi ha fatto bene, e se poi passi dalla noia di una terra ferma da vent'anni ad un porto dove mille culture s'incontrano per lasciare il loro permanente segno l'effetto interiore è devastante. 
E' un pensiero che mi martella ogni giorno, da quando apro il cancello ghiacciato della "Maison Accurso" ed un cielo sempre velato mi accoglie. 

"Les soleils mouillés. 
De ces ciels brouillés. 
Pour mon esprit ont les charmes. 
Si mystérieux."


Più recito Baudelaire, più penso che questo lungo inverno mi ha dato le giuste condizioni climatiche per riflettere in mezzo alla concitazione di una metropoli. 
Ma il cancello si chiude ed abbandono dunque quel sottile confine tra due stati mentali: ciò che sono, e ciò che sarò. Il ritmo accelera, arriva il rumore della strada, del traffico e dell'elettricità: tutti camminano veloce, masticano un assonnato "B'nj'r", ed aspettare dieci minuti un bus è un fatto inaccettabile. 
Non c'é tempo! Abbiamo una città da conquistare! Un posto anche per noi! Dalle colline di Nanterre e Mont-Valerien scendiamo alla conquista di Parigi, allez-y! E "crisi" per il momento è solo una parola in fase di studio.

E poco importa se nel bus non si respira, se tutti spingono. Nessuno si lamenta: la testa è altrove, nel proprio lavoro, in qualche futuro incontro, nella voglia di migliorare. Un paio si sgomitate, un "pardon" e si va avanti. 

Una bolgia infernale la Metro: guai perdere il passo! Al suono della sirena ci si fionda dentro le porte, come i veri Parigini, fatti ormai con pelli ed occhi di tutte le forme e colori.  
Terra d'immigrazione e competizione feroce, ed io ci sono dentro fino al collo. 


Prove tecniche di futuro, di stress e di maturità, anche al lavoro, tra veloci caffé e Chef de projet che s'incazzano per il tuo pessimo francese. Ogni angolo, ogni attimo nasconde una possibilità, un contatto forse, una possibilità di acculturarti per archiviare un' adolescenza passata tra capannoni e letame. 
Quanto piccolo e insignificante è il Veneto rispetto ai progetti che affronto ogni giorno, nei quali le mie stesse origini insignificanti mi costringono a ricominciare tutto da capo, come se fosse il primo giorno d'asilo.




E' questo che assorbo: la velocità, la bellezza del cemento armato, il costante mal di testa per le mille cose che vuoi programmare, vedere, leggere, o semplicemente sognare. 

Ora che Aprile è alle porte le giornate si faranno più lunghe e da Bastille prenderò la prima linea buona per passeggiare lungo i canali di Saint-Martin, convertendo le illusioni in realtà, anche con pochi soldi in tasca. 




E con le gambe stanche respirerò profondamente Parigi intera, mutandomi anch'io in un suo frammento.


M

lunedì 18 marzo 2013

Roads


Strade, proprio come quelle cantate dai Portishead.
Loro, assieme ai C.S.I., possono tranquillamente essere considerati la colonna sonora di questo mio viaggio. “I got nobody on my side, and surely that ain't right, surely that ain't right”... esco con la macchina fotografica senza studiare una meta predefinita, mi lascio guidare da loro, le strade. Succede sempre così, ma non mi lamento; mi piace sentirmi trasportata dall'energia della città. E Hanoi ne ha da vendere, anche se là fuori assomiglia più che altro ad una giungla intricata di motorini, taxi e biciclette, dove non basterebbero nemmeno ventisette occhi. Insomma anche oggi ho rischiato la vita almeno in tre occasioni.

Ogni volta che decido di fare una passeggiata va a finire che me ne sto a vagabondare per 4 o 5 ore almeno. E torno, la sera, stanca morta, così che salire le sei rampe di scale che mi separano dalla mia stanza diventa uno sforzo disumano. Solitamente vago senza avere un'idea precisa di dove sono, sperimentando una strada diversa alla settimana; la sfida è quella di orientarsi, ma ormai mi sto rassegnando a tornare in Italia senza aver vinto questa scommessa- anche perché il più delle volte dimentico la mappa a casa e sono così costretta ad affidarmi al mio fiuto che, com'è noto, non sempre è attendibile. 

Pomeriggio dolce assolato terso”... sono davvero rare le giornate limpide, qui. Il più delle volte il cielo è bianco e denso di nuvole; nebbia con pioggerellina fine e leggera, impercettibile ed inevitabile, tanto vale non farci caso e continuare a camminare. Comunque questa luce opalescente fa risaltare ancora di più le ombre, per cui l'atmosfera è ideale per fare qualche scatto... “dense sfumate nuvole di piombo”. Non è mai successo che mi annoiassi durante le mie passeggiate, quando sono in giro accade sempre qualcosa di particolare o anomalo che cattura la mia attenzione e mi tiene incollata nello stesso posto a lungo. Una bambina che vuole giocare con me nel piazzale del Mausoleo di Uncle Ho, un artista che mi permette di rimanere lì ad osservarlo mentre crea, oppure una cerimonia in una pagoda. Quando mi trovo nello stesso luogo assieme a tanta altra gente, per esempio sull'autobus o dentro ad un tempio, cerco di immaginarmi la provenienza e la storia di queste persone. Mi scopro a fantasticare sulla loro quotidianità e sui loro pensieri, ma è un'abitudine che non nasce qui in Vietnam, ho sempre avuto la mania di vaneggiare sulle vite degli altri, per questo non è così improbabile che anche voi mi sorprendiate con lo sguardo perso e la mente assente, di tanto in tanto... “Memorie e passi d'altri ch'io calpesto, su stanchezze di secoli in alterna cadenza”. 

Così trascorrono molte ore dacché sono partita, come se di colpo, assieme al chiarore del giorno, scendesse anche tutta la stanchezza dei chilometri macinati zigzagando nel traffico... “s'avvia verso la sera il pomeriggio”... e le gambe tremano, l'umidità appesantisce l'aria e anche la mia testa. Evito il quartiere vecchio, troppo chiassoso per me stasera, mi siedo ad un bar ed ordino una limonata. Fresca, dissetante, appagante. Mi rilasso... “rallenta il mio respiro, scende in profondità, si adatta al soffio del mondo”... e, almeno per ora, cerco di non pensare alle sei rampe di scale.


A




martedì 12 marzo 2013

Le Rital


Camminando su e giù per questa città, gioco ingenuamente a fare il Parigino, ma per quanto questo divertimento duri, rimango sempre un italiano. 
E lo rimarrò certamente, per quanto io possa lavorare sul mio accento.

Due settimane fa mi sono presentato ad un amico di un collega: "Je suis Matteo, italien!". Lui mi ha risposto: "Desolé! je comprends, c'est une grave maladie!". La cosa mi ha fatto ridere ma non troppo. 

Oggi mentre stavo alla posta (e l'impiegata non capiva molto bene cosa volessi) ho pensato alla marea di conterranei fuggiti in questo paese e al fatto che fuggire da essi è un pò difficile. 

Ma ciò che mi diverte è che i Francesi hanno coniato un nome per definirci: "Les Ritals"

E' un'espressione dell'Argot (lo slang francese) che un tempo risultava assai offensiva ma che oggi, quando gli sfigati in Francia non son più gli italiani, è decisamente neutra, anzi è diventata quasi simpatica.

I transalpini ancora adesso discutono sulle origini di questo termine, ma la teoria dominante sembra essere legata al fatto che tutti gli immigrati italiani facessero fatica a pronunciare la erre "alla francese". 
Questo accade ancora adesso, ed il sottoscritto ogni tanto si ritrova con la lingua annodata, con grande ilarità dei miei colleghi. 

La cosa finisce qui però: ormai sono altri i problemi per poter soffermarsi sugli stereotipi, la strage di Aigues Mortes, dove nove italiani vennero assassinati, una cinquantina feriti e quindici fatti sparire nel nulla a seguito di un attacco di violenza xenofoba collettiva è (per fortuna e purtroppo) caduta nel dimenticatoio, e nemmeno i francesi hanno più tanto il tempo per prenderci in giro.

Ci pensò già Claude Barzotti nel 1983, e la canzone è una perla imperdibile del trash: buon ascolto, se ne avete il coraggio!

M


martedì 5 marzo 2013

Scusate il ritardo

È vero, questa è una delle frasi che pronuncio più spesso nella mia vita. Il punto è che non so davvero da dove partire per raccontare della scorsa settimana. Certo, pensavo, avrò bisogno di qualche giorno per rielaborare e poi sarà tutto più chiaro. Illusa. È impossibile classificare sensazioni e sguardi! Attimi! Sarà stata tutta questa confusione che mi ha fatto ammalare?

Dopo questi giorni trascorsi ad An Lac, uno dei villaggi dove GTV lavora, sento di aver cominciato a capire senza soffermarmi semplicemente ad osservare. Certo, ho preso appunti come una matta, ho annotato, aggiunto e poi corretto. Alle volte ero costretta a ricorrere al registratore perché non era umanamente possibile appuntare tutto ciò che avrei voluto. Pensavo mi avrebbe aiutata a diventare più consapevole di ciò che mi circondava e chissà se, tra qualche mese quando riascolterò e rileggerò tutto, sarà davvero così. 

Siamo stati ospitati da Mr Tu e sua moglie, due persone eccezionali. Lui, quasi sessant'anni e un pizzetto grigio disordinato. Lei, qualche anno più giovane e una lunga treccia nera che le arriva in fondo alla schiena. Entrambi hanno un passato complesso, che ha inevitabilmente a che fare con la guerra. L'hanno vissuta sulla loro pelle, prima da bambini e poi da soldati, come testimonia una vecchia fotografia appesa sopra l'altare degli antenati. Ascoltare i loro ricordi mi ha fatto sentire parte di un momento unico, spettatrice di un qualcosa di speciale. Adesso che i figli sono grandi si godono la natura che li circonda, allevano maiali e coltivano piante e verdure. Una vita semplice e gratificante, condivisa con i turisti che desiderano trascorrere una notte nella loro casa. Stavolta i turisti eravamo noi, anche se per loro le nostre facce non sono nuove, anzi, mentre sedevo davanti al fuoco sgranocchiando una pannocchia arrostita avevo proprio l'impressione di stare in famiglia.


Ho incontrato molte persone, ho guardato le loro mani incallite e rugose, testimoni del tempo che scorre; ed ho ringraziato, sì proprio così, ho ringraziato che potessero regalarmi un po' del loro tempo per parlarmi della loro vita. Ho riempito gli occhi ed il cuore di immagini e le mie mani hanno accarezzato molte altre mani assetate di contatto. E lo sguardo... quante cose si possono dire solamente con lo sguardo! Grazie a quei giorni nella foresta ho riscoperto il valore della vita semplice, guidata dalle piccole cose, del silenzio e di tutti i significati che può avere. Mi sono lasciata trasportare dalle parole di chi desiderava condividerle con me, senza forzature, senza sguardi preoccupati all'orologio, semplicemente lì, in attesa. 

Ed ho incontrato. Ed ho raccolto.


A

mercoledì 27 febbraio 2013

Ce sont des choses qui se passent


L'altro giorno ha di nuovo nevicato. Merda. Ed è il 27 Febbraio.

Perchè è così l'inverno: carogna fino all'ultimo. Ti illude con un paio di giorni di sole (un lusso a Parigi), mentre tu per la gioia ti rechi in pausa pranzo al Viaduc des Arts con una galette in mano, e poi torna a tuonare, quasi per dire "ci sono ancora, che ti piaccia o no".

Anche in Italia si pensava fosse primavera, poi è ritornato il gelo.  
E ha fatto male. 

Mi hanno detto che da voi invece c'era una notte stellata, ma le stelle sono fatte per i sognatori, non per i qualunquisti. Al massimo questi ultimi si meritano quelle di cartone, magari disegnate sull'ennesimo simbolo da venerare. 
"Ce sont des choses qui se passent" penso, ma so che è l'ennesima cazzata che tento di raccontare a me stesso, come quelle che leggo sul web, condite di caos e veleno pronti ad arrivare fin qui. Quando leggo di persone che vogliono fare le valigie a stento trattengo una smorfia d'ironia: che abbia dato il buon esempio? Almeno so di averlo fatto più per curiosità che per disperazione.

Mi chiedo dopo questa mazzata di elezioni quale sia veramente la mia casa: ho pure cominciato a pensare che qui in Francia così male non si sta. Forse non sono di passaggio, potrei giocarmela un pò. Potrei almeno provarci. "Je travaillerai avec application" ho detto oggi al mio chef de project, lui mi ha consigliato di aggiornare il mio CV, "on ne sait jamais". Farò sparire anche il mio ridicolo accento un giorno. 

E tu mi seguirai? Quando arriverà la primavera a seppellire questo inverno bastardo sceglieremo insieme la carta da parati per il nostro appartamento in affitto e la domenica staremo nei parchi. Poi ogni estate torneremo in Italia, giusto per fare un giro in giostra, diremo a tutti i nostri amici che la pizza è buonissima e che i paesaggi sono mozzafiato. 

Purtroppo solo quelli. 


sabato 23 febbraio 2013

La vigilia delle elezioni



Stasera non riesco a sentirmi distante dall'Italia. 

Non ci riesco perché anche qui l'atmosfera pesante come un macigno delle elezioni arriva e mi procura un senso di frustrazione non indifferente.  

Frustrazione perché non riusciamo a passarne la vigilia senza polemiche, senza incazzature e senza alcuno sforzo di sognare. Dicono che dovrei lasciar perdere, pensare a godermi il tempo qui, ma stasera no, mi rifiuto.  

Sarò ingenuo? Può essere, ma essere distaccato ed imparziale non mi piace quando questo diventa un espediente per dire tutto, ma non dire mai niente. 
Proprio no. 
Stavolta rischio.

A parlare male siamo bravi tutti, a prenderci la responsabilità di una scelta molto meno. Sinceramente vedo la stessa ingenuità tra chi vota PDL e M5S. 

Il vero cancro del mio paese non sono i partiti o quelli "tutti uguali", ma il qualunquismo e l'accettazione pre-razionale di ogni contenuto politico: B. e il suo ventennio ne sono solo una conseguenza. 
Purtroppo le rivoluzioni sfruttano anche una base ignorante, per poi divorarsi i suoi figli come Saturno. 

I rivoluzionari Francesi che condannarono Maria Antonietta erano un fabbro analfabeta ed un panettiere improvvisati come "avvocati", che inventarono un capo d'accusa per portarla alla ghigliottina. Cosa portò poi tutto questo? 

Sarete ancora capaci di consegnare tutto a "chi-sapete-voi" con il vostro impeto da Sanculotto della Domenica?
Tempo fa dissi ad un amico che avrei voluto svegliarmi in un altro paese, oppure continuare a dormire. Beh, è da un pò che la prima cosa accade, ma ho come l'impressione che dovrò desiderarlo per ancora un pò. 

Ecco l'ho detto, ma temo di essermi trattenuto anche stavolta. Pazienza. 

Auguri Italia. Buon voto. Con le ghigliottine o meno, mi mancherai lo stesso.




M

mercoledì 20 febbraio 2013

Le cose che mi fanno sentire integrata


Ci sono alcuni momenti, mentre cammino per strada, in cui mi sento proprio sicura. Sì, insomma, alle volte mi sembra di essere qui da sempre, al punto che anche le difficoltà linguistiche sembrano scorrere in secondo piano.
A dirla proprio tutta, nei giorni scorsi ho iniziato ad annotare una lista delle “cose che mi fanno sentire integrata” e mano a mano che ripensavo alla mia quotidianità, l'elenco si è allungato, fino ad ottenere questo risultato:

  • manovrare i chopsticks con disinvoltura;
  • dire “io vivo qui”;
  • camminare piano sotto la pioggia, senza ombrello;
  • attraversare la strada con cuore impavido;
  • comprare il caffè al negozio equo e solidale che ho scovato;
  • prendere quella scorciatoia che mi fa arrivare prima al lavoro;
  • dimenticarmi di bere acqua per un'intera giornata;
  • fermare un taxi... ma quello “giusto”;
  • incontrare lo stesso pescatore ogni giorno alle 17.40 il quale, dopo avermi salutato stringendomi la mano, mi prende sotto braccio e camminiamo, così, per 5 metri, finché lui non si gira e torna indietro;
  • prendere il bus;
  • fare la spesa “tattica”, ovvero cosa comprare e dove;
  • trattare sul prezzo: mai accettare alla prima offerta;
  • sapere come presentarmi in vietnamita;
Nella foto: si accendono le luci sul West Lake.
A

venerdì 15 febbraio 2013

La percezione delle cose


Qual'é la vera percezione di un luogo? Come si arriva a questa consapevolezza? Sono delle domande che mi martellano da qualche giorno a questa parte. Penso di essere arrivato in una fase nella quale conta più ciò che si sente rispetto a ciò che è presente, ed ora che ho imparato ad interpretare il ritmo della vita Parigina, voglio capire come si vive una città, come s'interpretano i suoi luoghi.
Il mio terrore è fare il turista, non riuscire ad intaccare la superficie liscia delle cose. Personalmente odio i turisti, con le loro scarpe da jogger della domenica, la loro bocca mezza aperta (segno che non stanno capendo nulla) e i loro libri-guida pieni di stereotipi. Li detestavo quando vivevo a Venezia, qui ancora di più. 
Ammetto che sia un pensiero antipatico, ammetto che dal mio punto di vista è facile giudicare in questo modo, ma come le pietre di Venezia, le rues Parigine richiedono un rispetto al limite del sacro e un tempo che non va discusso. Un turista è troppo superficiale, forse non è nemmeno colpa sua, ma pretende di conoscere il luogo senza sentirlo, ma solo osservandolo: è come se tu volessi corteggiare una donna pretendendo di baciarla subito. 

Pure io sono caduto qualche volta in questo errore, quello di soffermarmi sulle cose con un naso troppo all'insù, ma ora ho un'occasione talmente grossa tra le mani, che solo l'emozione può farmi perdere. 
Allora lascio a casa ogni dizionario o libro (a parte quello da leggere in metro) e salto da una stazione all'altra, assaporandone la loro staticità rispetto alla quotidiana concitazione. Mi ritrovo completamente spaesato in rue Monsieur le Prince, dove due americani gestiscono un negozio di libri usati, ci passano anche la domenica in quel negozio, come se fosse la loro casa. Non parlano una parola di francese eppure vivono a Parigi da una vita, insieme alle pile di libri e vhs impolverati, come frammenti di un'America troppo distante. Per un attimo mi sento un loro amico e non un semplice cliente: la lontananza ci accomuna. 


Ma senza accorgermene mi ritrovo a fare due passi da Stalingrad fino all'Espace 104, ex obitorio cittadino trasformato in chiassosa piazza piena di eventi e installazioni artistiche. Incontro Eva, una collega che abita qui già da tre anni e lo fa ben notare con un francese spedito, quasi da hostess. Vedo stanchezza nei suoi occhi: non capisco se sia veramente felice oppure le manchi qualcosa. Lavora in un piccolo studio vicino a Père Lachaise: mi parla di lunendì mattina, di lavori en charrette, e dopo quasi un mese, parlare con lei mi fa sentire per la prima volta distante da casa. Mi chiedo come fosse la sua vita prima di arrivare qui. Sento che purtroppo ventisei anni di amicizie e abitudini non potranno essere rimpiazzati facilmente dalle opportunità che cerchi. 


Però il bello della precarietà è che mette tutti nella stessa barca, con lo stesso impaccio. Non dico sia una situazione di totale fraternità, ma ciò che ti accomuna è la voglia di conoscersi, di capire e a volte di chiedere aiuto. Perché si ricomincia tutto da capo, credendo, da poveri illusi, di sapere già qualcosa. 

Credo che Parigi sia stata costruita anche sulle certezze abbandonate, quelle che da clandestino piano piano ti portano a sentirti una cittadino, non solo italiano, ma per la prima volta europeo. Sarò ingenuo, ma non credo esistano tanti altri posti dove sia possibile vedere un collega Tunisino raccontare la propria storia alla mia vicina di scrivania Islandese. E allora la percezione delle cose cambia davvero, non ti interessa più osservare, ma vuoi solo sentire le mille storie di questa città, saziartene fino allo sfinimento e chiederti in maniera nervosa dove diamine stavi prima. Ormai non sono più un turista.
Sento che gli sguardi e le parole delle persone che mi circondano valgono più di mille musei.  

Saranno sufficenti quattro mesi per capire tutto questo? Al futuro non ci penso, sarebbe un'eresia farlo ora. Mi adatto al tempo che questa città vuole scandirmi, per poterla capire, per portarle rispetto. 

Io cambierò con lei.

M